L'oro del Mediterraneo: l'olio d'oliva nell'antichità.


Il percorso che ha fatto questo liquido così profumato e saporitissimo per arrivare fino a noi è una vera e propria Odissea fatta di bivi, discese e salite.
Coltivato o domesticato deriva da quello selvatico che cresce nei luoghi isolati e rupestri, ovvero i paesaggi dell'area mediterranea. Dalla pianta selvatica si ricavava un olio amaro il cui utilizzo era assai limitato (parlando anche dell'ambito alimentare).
Già i Greci conoscevano diverse varietà di olivi selvatici a cui diedero nomi diversi: agrielaia, kòtinos, dhulia; mentre i Romani le riunirono tutte sotto la denominazione "oleaster".
Nonostante le conoscenze profonde e differenziate di queste due grandi civiltà, la patria d'origine dell'olio sembra essere l'Asia Minore, esso infatti era conosciuto da popoli semitici  come gli Armeni e gli Egiziani.
La trasformazione dell'olio selvatico in domestico si ebbe a opera delle popolazioni della Siria. L'uso di coltivare l'olivo passò dall' Asia Minore alle isole dell'arcipelago e quindi in Grecia. Sotto questo aspetto ogni civiltà rivendicò la paternità di questa pianta: gli Egizi la consideravano una creazione di Iside, i Greci di Atena e i Romani di Minerva. Nella mitologia greca un giorno vi fu un'aspra contesa tra Atena e Poseidone per il possesso dell'Attica. Per risolvere il bisticcio Zeus propose di affidare quella terra a chi avrebbe apportato all'umanità il maggior beneficio, vinse Atena che portò a Zeus un ramo d'olivo carico di frutti capaci di:


"... fornire la fiamma per illuminare le notti, lenire le ferite e produrre un cibo prezioso, nutriente e gustoso".



(Anfora Panatenaica, 570-560 a. C.,
British Museum, Londra)


Questo racconto mitologico si ricollega alla leggenda secondo cui l'ulivo giunse in Grecia in occasione della fondazione della città di Atene nel 1582 a.C., portato dal suo fondatore Cecrope.
In onore della vittoria di Atena nella disputa, si celebravano le feste panatenee, durante le quali gli atleti vincitori ricevevano anfore colme di olio prezioso. Queste ultime avevano una forma molto particolare: corpo panciuto, collo breve, fondo stretto e piccole anse "a maniglia", dette proprio per l'evento sopra citato panatenaiche.
L'olio attico era considerato il migliore ma erano apprezzati molto anche quello di Sicione, Eubea, Samo, Cirene, Cipro e alcune regioni della Focile.
Nella Magna Grecia invece le zone più floride per la coltura dell'olivo erano Sibari, Taranto, Venafro, Sabina, Piceno e la Liguria.
Nonostante l'olivo esigesse molte cure e il processo di produzione dell' "oro liquido" fosse complesso, i Greci perfezionarono molte tecniche perché esso non aveva solo una funzione alimentare ma cosmetica, farmacologica e rituale. In tal senso anche presso gli Egizi l'olio era molto utilizzato in campi molto diversi tra loro, compreso il processo di imbalsamazione.


(Tomba dei Leopardi, I tre musici, necropoli di Monterozzi,
Tarquinia, V secolo a. C.)



A seconda dell'uso a cui erano destinate le olive venivano raccolte a diversi stadi di maturazione: ancora acerbe (olive albae o acerbae), non completamente mature (olive variae o fruscae) e mature (olive nigrae). Per non danneggiarle si staccavano con le mani e quelle che erano poste troppo in alto venivano raccolte per mezzo di bastoni molto lunghi e flessibili (ractriai in greco).


(Pittore di Antimene, 520 a. C. circa,
British Museum, Londra)



La vendita al dettaglio non avveniva solo in campagna o nelle botteghe ma anche nell'agorà.
Per quanto riguarda il territorio italiano sono documentati ritrovamenti di noccioli di oliva fino al Neolitico; questo non vuol dire però che già in epoca preistorica l'ulivo venisse coltivato. Inoltre il tempo intercorso tra la fase di semplice conoscenza di questo frutto e il suo reale utilizzo in ambito agricolo sembra abbastanza lungo.
Questo aspetto è comunque molto importante perché fa sorgere dubbi sulle teorie che sostengono che l'ulivo sia stato introdotto in Italia dai primi coloni greci. Il vero problema è invece definire quando sia cominciata la loro coltivazione sul territorio italiano.
A tal proposito le fonti linguistiche, letterarie e archeologiche evidenziano che fra l'VIII e il VII secolo a. C. esistevano già colture organizzate che, grazie al clima favorevole, consentivano l'ottenimento di un surplus di prodotto che veniva destinato agli scambi commerciali.
In ambito alimentare fu uno dei beni principali dell'antichità classica. Nel mondo romano non si utilizzava altro alimento per cucinare e condire, i più rinomati erano: l'olio verde di Venafro, come attestato da Marrone, Plinio, Orazio e Stradone; e il Liburnia in Istria. Quello africano era considerato di pessima qualità e veniva quindi utilizzato per l'illuminazione.
Già durante la civiltà greca e romana esistevano i truffatori, vi sono documenti a tal proposito che attestano episodi di commercianti o produttori poco onesti. In tal senso il mondo romano per tutelare l'acquirente varò alcune leggi che avevano la funzione di contrastare questi episodi.
Poiché l'olio non subiva trattamenti, per prolungarne la vita (quelli che vengono fatti ora), ad esso era addizionato sale per scongiurare pericolosi irrancidimenti.
E' noto inoltre che l'olivo che si otteneva dalla torchiatura era piuttosto denso e che, per renderlo più fluido, occorreva riscaldare l'ambiente in cui veniva prodotto per evitare che si rapprendesse e, proprio per questo, l'olio molto spesso  aveva un odore di fumo.
Altre volte, grazie al clima della zona dove veniva prodotto, era sufficiente che il locale di torchiatura fosse rivolto a sud ed esposto ai raggi del sole.
Molti autori e intellettuali antichi parlarono nelle loro opere delle fasi di produzione del nostro protagonista.  Il frantoio romano venne descritto minuziosamente da Columella (I secolo d.C.) e risulta essere simile a quello moderno.
L'interesse che hanno mostrato questi intellettuali evidenzia chiaramente come l'alimentazione e la cultura siano due facce della stessa medaglia e non si può considerarne una senza tener conto anche dell'altra.

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