Buono, nonostante tutto. Percorso culturale e storico attorno al grano saraceno.


Spesso quando si parla o pensa al grano saraceno l'associazione comune è alla cucina di montagna e ai suoi forti legami con la storia e i vari luoghi da cui proviene. In realtà il percorso culturale e storico attorno a questa pianta è assai curioso e merita di essere trattato, seppur brevemente.

Il grano saraceno è una pianta erbacea annuale che produce piccoli fiori e appartiene alla famiglia delle Polygonaceae, piante diffuse prevalentemente nelle regioni temperate boreali.

Ancora oggi viene spesso erroneamente inserito nella categoria dei cereali sia per le sue caratteristiche nutrizionali che per l'idoneità a essere utilizzato e, soprattutto, trasformato in farina. Motivi per i quali è definito "grano" pur non appartenendo alla famiglia delle Graminaceae che, inoltre, è bene ricordarlo è un termine di tipo merceologico, non scientifico. E' comunque un prodotto assolutamente interessante perché privo di glutine ma, consumato in elevate quantità, può essere tossico.




Si discute ancora molto sulla sua origine , tuttavia gli archeologi sono propensi a collocarla in Cina o, più in generale, in Oriente, avendo trovato resti in scavi di vari territori. La sua prima citazione scritta inoltre appare in testi cinesi databili tra il V e il VI  secolo d. C. Era una pianta che, in quella parte del mondo, veniva utilizzata come fonte di nutrimento alternativo se i raccolti di riso fossero stati pessimi.

Attorno al XIV - XV secolo il grano saraceno raggiunse l'Europa grazie al passaggio attraverso Russia e Turchia. Le sue due caratteristiche: la capacità di crescere anche anche ad altitudini elevate e sopportare climi difficili, gli consentirono di svilupparsi nelle aree montane italiane o, comunque, in quei territori dove altre colture erano assai difficili. Fu infatti per lungo tempo l'ingrediente principale della cucina alpina povera di molte località italiane ma anche di altri Paesi in Europa. L'esempio più conosciuto sono i pizzocheri della Valtellina, un piatto semplice ma gustoso, importante esempio della capacità della cucina (e soprattutto dell'uomo) di adattarsi alle varie caratteristiche climatiche e ambientali, elaborando nel tempo preparazioni che ancora oggi sono una sintesi di storia e tradizioni rurali.

La presenza del nostro protagonista nell'area valtellinese è documentata dal 1616 all'interno dell'opera di Giovanni Von Weineck, diplomatico, storico e cartografo svizzero; la sua coltivazione fu, fino al secolo scorso, un elemento fondamentale dell'economia rurale di quella parte importante di territorio alpino e di altre aree italiane ed estere. 

La trasformazione che subì la Valtellina nel dopoguerra in termini di destinazione dei terreni alle varie forme di agricoltura contribuì in modo significativo alla riduzione della sua coltivazione.




Solo a partire dagli anni Novanta si iniziò ad assistere a un cambio di tendenza e a un crescente interesse nei suoi confronti unito alla volontà di recuperare le antiche tradizioni agricole e gastronomiche. A ciò si aggiunsero anche le scoperte legate ai possibili impieghi del nostro protagonista nella realizzazione di prodotti alternativi caratterizzati dall'assenza di glutine, motivi che hanno negli anni contribuito a diffonderne la coltivazione anche in alcune aree appenniniche.

E' quindi la storia che ci può fornire spunti o, addirittura, indicazioni sulle potenzialità del nostro protagonista e sui suoi impieghi culinari e agricoli. Gli esempi del resto sono tanti e variegati: i pizzocheri che ho citato in precedenza, ma anche gli sciatt, che in dialetto valtellinese vogliono dire rospo ma in realtà indicano le gustosissime frittelle di formaggio la cui pastella ha come ingrediente principe proprio il grano saraceno, ma poi anche le differenti tipologie di pasta confezionate in varie zone d'Italia e in altri Paesi, le pappe e, immancabile, la polenta. Quest'ultima preparazione merita qualche riga in più perché ha avuto un ruolo fondamentale, assieme a pochi altri prodotti, nel sostentamento di generazioni di uomini e donne nelle Alpi ma, in generale, nei territori rurali italiani, soprattutto del Nord. Pietro Andrea Mattioli, umanista, medico e botanico italiano del Cinquecento ne testimonia gli utilizzi all'interno del proprio lavoro di ricerca ben prima del Seicento. Tuttavia la testimonianza più curiosa è la polenta nell'opera "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni, più precisamente l'episodio in cui Renzo entra nella cucina di Tonio, vicino di casa di Lucia, e lo trova intento a rigirarla sul fuoco. Un episodio comune, apparentemente banale se non fosse che non era come la intendiamo oggi ma un insieme di farine considerate inferiori tra cui vi era anche, naturalmente, il grano saraceno. La polenta bigia, questo il nome di un piatto semplice e al tempo stesso simbolo dei ceti poveri.

Il grano saraceno è quindi oggi un prodotto sempre più apprezzato sia dai consumatori che dalle aziende di ristorazione ed è oggetto, fortunatamente, di interesse anche da parte di associazioni, enti e realtà che hanno come scopo la promozione del suo legame con la cultura contadina di una parte d'Italia fondamentale non solo per il patrimonio gastronomico nazionale ma, ancor più, quello culturale, storico e sociale.

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