Pasta: il cambiamento delle consistenze.

I gusti che ruotano attorno ai generi alimentari non sono fissi nel tempo ma subiscono influssi, modificazioni e addirittura stravolgimenti. Non solo le materie prime ma anche e soprattutto il modo di prepararle, presentarle e definirle idonee al consumo.
Di certo in questo discorso molto articolato la pasta e il suo consumo hanno da sempre occupato un posto notevole. Nei ricettari medievali la sua cottura poteva avvenire in due modi simili (per il metodo di cottura utilizzato) ma diversi (per il mezzo): nei giorni di "grasso", ovvero quelli in cui il calendario liturgico consentiva il consumo della carne, la pasta veniva cotta generalmente nel brodo di cappone o gallina; in quelli di "magro", in cui il consumo di alimenti carnei era interdetto, la nostra protagonista veniva cotta in acqua.
Due modalità che, se ci pensiamo bene, apparentemente non si discostano da quelle esistenti oggi, tranne che per un aspetto molto importante: il tempo di cottura. Oggi infatti, come si può intuire dal titolo di questo articolo, consumiamo la pasta al dente ed ignoriamo che per secoli questo alimento importante per la cultura italiana venne consumato molto cotto.

(Jusepe de Ribera, Il mangiatore di maccheroni,
Hartford, Wadsworth Atheneum)


Una convinzione durata per molto tempo, nel XVI secolo la pasta veniva cotta ancora per lunghissimo tempo: i vermicelli per un'ora e i maccheroni per circa due ore (la diversità tra queste due tempistiche diverse non è ancora nota agli studiosi). Anche i tempi di cottura per le paste ripiene erano considerevolmente lunghi rispetto ad oggi; un aspetto curioso è che spesso l'unità di misura era il tempo impiegato per recitare alcune preghiere. Maestro Martino, per esempio, raccomandava di lasciar cuocere le paste ripiene per il tempo di "doy Paternoster".
Un elemento molto importante che va tenuto in considerazione è che questi aspetti non derivavano dal fatto che i cuochi o gastronomi dell'epoca non conoscessero i tempi di cottura, bensì da un vero e proprio gusto per la pasta fondente, cioè eccessivamente cotta. Un tipo di scelta che si univa a quella di utilizzare e preferire farina di grano tenero. I prodotti confezionati con questa materia infatti rilasciavano grandi quantità di amido nel mezzo di cottura che assumeva quindi una consistenza viscosa; un tipo di preparazione che rientrava nella categoria delle "pappe".
Questi tempi molto lunghi trovano naturalmente conferma nella medicina dell'epoca che si basava sui principi galenici: la consistenza della pasta e la sua frequenza di consumo erano aspetti importantissimi da tener presente per mantener un buono stato di salute.
Col passare del tempo, come del resto accadde per altre preparazioni gastronomiche, i tempi di cottura andarono progressivamente riducendosi. Già durante il Rinascimento, per esempio, sebbene le pratiche medievali fossero comunque presenti, si assistette ad un vero e progressivo cambiamento.
Tuttavia si può affermare quindi che queste preferenze mediche e gustative iniziarono a subire modificazioni sostanziali a partire dal XVII secolo che portarono alla conseguente distinzione tra le modalità e tempistica di cottura della pasta fresca e di quella secca. Fu proprio a partire da questo periodo infatti che iniziarono a essere presenti nei testi di differenti autori tempi di cottura brevi per paste sottili o ripiene (sebbene, va ricordato, ci volle tempo per diventare un'usanza diffusa). Va però riconosciuto che nonostante le modificazioni fatte i testi che sono giunti fino a noi documentano come spesso le cotture con un tempo medio erano accompagnate da una lenta stufatura della pasta in un tegame posto sotto la brace o sul fuoco dolce. Quest'ultimo modo di cottura descritto, una sorta di combinazione tra due tecniche, rimase una costante in Italia (fatta eccezione di Napoli) per un lungo periodo, fino addirittura al XIX secolo!. Va anche detto che il permanere di cotture medio-lunghe, nonostante i cambiamenti progressivamente apportati, non modificarono i commenti dei visitatori stranieri che in diversi documenti scrissero come la pasta in Italia fosse poco cotta, segno probabilmente di una progressiva diversificazione tra i gusti e le modalità di cottura italiane e straniere.
La cultura della cottura breve fu saldamente legata con ogni probabilità a Napoli attorno alla figura del "maccaronaro" che per pochi soldi vendeva la pasta cotta al momento per le vie della città. Una figura che ho già avuto modo di analizzare in altri approfondimenti e che è documentata in numerose illustrazioni del XIX secolo redatte prevalentemente da intellettuali europei ed avevano come scopo quello di documentare ciò a cui assistevano durante il loro viaggio alla scoperta del Bel Paese (aspetti positivi ma anche molti considerati negativi), il tanto conosciuto Grand Tour.
Ippolito Cavalcanti nella sua opera "Cucina teorico-pratica" pubblicata nel 1839 fu il primo a insegnare come cuocere i vari tipi di pasta "alla napoletana", ovvero con tempi di cottura ridotti e appropriati al formato o al tipo.
Con la diffusione della rivoluzione industriale anche in Italia (solo a partire dalla seconda metà dell'Ottocento) e quindi alla nascita della pasta fatta in modo industriale, si diffusero in modo definitivo e significativo diversi modi di cuocerla, tutti però molto brevi rispetto al passato. Questo nuovo modo di cucinare la nostra protagonista si diffuse il secolo scorso e divenne modello di una cucina che venne definita "all'italiana" e si legò saldamente e definitivamente all'immagine del nostro meraviglioso Paese.
Un percorso controverso quindi che ha modificato non solo i modi di cucinare un prodotto ma anche i gusti alimentari che vi sono ruotati attorno.

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