Il Grand Tour.... gastronomico!

Durante le mie vacanze trascorse nel meraviglioso Salento ammirando le bellezze artistiche e naturali della zona, non ho potuto e voluto esentarmi dal visitare la meravigliosa Otranto. In particolar modo sono stato affascinato dallo splendido Castello Aragonese in cui era allestita una mostra davvero interessante (e tutt'ora in corso) dal titolo: "Il Grand Tour da Napoli ad Otranto" inaugurata il 18 giugno in occasione della nuova apertura della fortezza e visitabile fino al 30 settembre. Passando da una sala all'altra e osservando le numerose stampe, ma anche disegni e bozzetti raffiguranti pezzi di vita di una parte d'Italia importante sia dal punto di vista culturale che storico, mi domandai subito se di fatto si fosse potuto tracciare anche un percorso che toccasse elementi della cultura gastronomica. Ben presto mi accorsi che effettivamente si poteva parlare di un "Grand Tour Gastronomico", ovvero di un viaggio culturale alla scoperta di usi, riti e pratiche alimentari comuni allora e di vitale importanza oggi per definire le basi culturali del nostro patrimonio alimentare.



Ma cos'è il Grand Tour? Era sostanzialmente un viaggio diverso da quello che viene compiuto ai giorni nostri, una scoperta lenta, appannaggio dei ceti elevati e dei ricchi intellettuali del Nord Europa, che aveva come scopo quello di aumentare la cultura arricchendo la conoscenza. Era un tuffo alla scoperta dei luoghi che, grazie alle civiltà antiche, non solo erano densi di storia e arte ma erano stati un punto fondamentale della crescita culturale e antropologica dell'uomo. Questa vera e propria moda cominciò nel Settecento quando l'intellettuale tedesco Winckelmann affermò che la culla dell'Europa e del Mondo era il Mediterraneo con la propria storia artistica, culturale e sociale.
Il Sud Europa e in particolar modo l'Italia divennero così mete predilette per giovani nobili di molti Paesi che compivano un viaggio che si concentrava poi nel Grand Tour da Napoli a Otranto; moda che permase addirittura per gran parte dell'Ottocento anche dopo la caduta dell' Ancien Regime, vedendo quindi il succedersi dell'alta borghesia europea all'aristocrazia. Un viaggio che aveva la  capacità non solo di far conoscere bellezze paesaggistiche, rovine di culture e civiltà del passato e località dense di storia ed arte, ma anche e soprattutto tradizioni gastronomiche e alimentari.
La scoperta del vero Sud, non quello immaginato dal fervore settecentesco denso della moda delle pastorellerie e dai canoni romantici ottocenteschi, era di fatto una possibilità unica e irripetibile di scoprire curiosità legate ad un modo di concepire il cibo profondamente differente da quello nordico.
Nonostante ciò, gli scritti degli intellettuali che visitavano il nostro Paese in merito alle abitudini alimentari esistenti, non erano positivi, anzi, troppo spesso erano vere e proprie critiche che culminavano nello sconsigliare di mangiare in taluni posti e, più in generale, in campagna. In particolar modo le caratteristiche della Napoli settecentesca e ottocentesca, brulicante di venditori ambulanti, commercianti, e soprattutto "lazzaroni" stizzivano i nobili e altolocati europei. Soprattutto i "lazzaroni", poveri senza un soldo, vestiti di stracci, che non volevano in nessun modo lavorare tranne lo stretto necessario per guadagnarsi il cibo ma allo stesso tempo bonari e sempre di buon umore, ebbene proprio questi ultimi suscitavano lo stupore più grande, sentimento comprensibile per una fetta d'Europa profondamente avvezza al guadagno e alla produttività e poco a stili di vita più rilassati.



Ma è proprio l'aspetto gastronomico (come già accennato in precedenza), a stupire la nobiltà europea, ed in sostanza era l'immagine del "lazzarone" che si metteva in bocca i maccheroni a sconvolgere maggiormente. In realtà questa abitudine non era tipica solo dei ceti bassi, si potrebbe quasi affermare che era utilizzata da tutti gli strati della società, tanto che un ospite irlandese alla corte borbonica affermò in merito al re Ferdinando I di Borbone e al suo modo di gustare i maccheroni:

"li afferrava tra le dita, torcendoli e stiracchiandoli, e poi infilandoseli voracemente in bocca, disdegnando con la massima magnanimità l'uso dei coltelli, forchette o cucchiai o qualsiasi altro strumento eccettuati quelli che la natura gli ha gentilmente messo a disposizione"

In realtà spiegare questo stretto legame tra il popolo partenopeo e il consumo della pasta non è affatto semplice, proverò brevemente a citarne alcuni aspetti utili. La pasta fino al Seicento circa era consumata sostanzialmente come contorno ad altre pietanze, solo nel Settecento a causa di numerose carestie ed epidemie con le conseguenti ristrettezze alimentari, venne adottata come un vero e proprio cibo da consumare da solo e dai forti caratteri positivi.



In realtà ciò non basta a spiegare questa salda unione, si può affermare che vi furono un insieme di fattori che favorirono e consolidarono sempre più questo legame. Si diffuse circa nello stesso periodo il latifondo, che permetteva estese coltivazioni di grano che divenne così a buon mercato e quindi l'alimento maggiormente consumato soprattutto dalle fasce basse della popolazione (anche se ciò, in realtà è vero solo parzialmente, ma avrò modo di spiegarlo meglio in altri post). La crisi delle campagne dovuta appunto all'affermazione di questo nuovo sistema agricolo e da altri fattori di ordine economico, determinò una fuga di contadini che si trasferirono in città, dove l'alimento più a buon mercato e maggiormente reperibile era la pasta, servita fino a tutto l'Ottocento da numerosissimi venditori ambulanti. Va ricordato inoltre che il progresso economico e l'invenzione di nuovi sistemi di produzione e differenti tipi di torchio, permisero una produzione di pasta più efficace e, soprattutto, massiva.
Del resto anche il conosciutissimo Goethe nel suo "Viaggio in Italia" scrisse:

"Quanto ai cibi a base di farina e di latte, che le nostre cuoche sanno preparare in tante maniere, la gente di qui, preferendo evitare complicazioni e non avendo cucine ben attrezzate, ricorre a due risorse: anzitutto ai maccheroni (..); dappertutto se ne può acquistare d'ogni genere per pochi soldi. Si cuociono di solito in semplice acqua, e il formaggio grattugiato unge il piatto e allo stesso tempo lo condisce".

Ma la vendita della pasta non era l'unico aspetto centrale di Napoli, i venditori ambulanti erano un aspetto tipico di molti luoghi d'Italia (e lo sono ancora oggi a dir la verità), in particolar modo al Sud. Non solo pasta quindi ma anche frutta e verdura, formaggi e pesce; i prodotti in sostanza che la terra e il mare potevano offrire.
In particolare modo prima dell'epiteto coniato ai napoletani di "mangiamaccheroni" essi erano conosciuti come "mangiafoglie", per l'ingente consumo di verdura, soprattutto dagli strati bassi della popolazione.



Non solo esigenza primaria per placare uno stomaco sempre affamato e mai sazio, ma anche piacere se pensiamo al richiamo di molti ambulanti dell'epoca:

"tenghe e mellune chiene e fuoche"

Un invito irrinunciabile a consumare meloni e angurie fresche, che venivano disposte sopra pezzi di ghiaccio per renderli più gradevoli ed aumentarne la conservazione.
Più articolato è il discorso che va fatto sul pesce. I prodotti del mare per secoli furono appannaggio esclusivo di località prospicenti porti o grandi centri di pesca, come del resto ho già parlato di ciò in precedenti articoli. La mancanza di sistemi di trasporto e conservazione efficienti e successivamente i grandi costi necessari per procacciarsi tali prelibatezze li confinarono per molto tempo alle località di mare, dove gli abitanti li consumavano crudi o cotti in numerose bancarelle, come del resto testimonia l'illustrazione qua sotto, documento vivo di ciò che i visitatori europei potevano osservare in città come Otranto o Napoli.


Il sistema che ho voluto brevemente analizzare attraverso questo post è l'importanza che hanno avuto in passato i venditori ambulanti non solo come punti per il procacciamento di cibo ma anche e soprattutto come veri e propri centri di diffusione di una cultura: quella alimentare povera. Differentemente ai pasti consumati nelle proprie abitazioni, caratterizzati da una sorta di individualismo della persona o del nucleo famigliare, consumare un pasto presso un venditore ambulante voleva dire socializzare, entrare a far parte di un sistema culturale, quello popolare, che aveva proprio in quei punti di ritrovo dei veri e propri cardini di consolidamento e diffusione. Si potrebbe quasi azzardare a pensare che tutto ciò "costringeva" alla socializzazione e al dialogo (anche burrascoso, s'intende) con l'altro.
L'osservazione della mostra e delle stampe presenti è a mio parere di fondamentale importanza per tracciare un percorso culturale e sociale di un pezzo d'Italia, riscoprendo non solo volti e luoghi, ma soprattutto abitudini e gusti che si sono inevitabilmente modificati o addirittura andati perduti.
In fondo, diciamocelo, è un modo più avvincente e molto più efficace per conoscere un pezzo di storia e di patrimonio culturale italiano.


* Le immagini presenti in questo articolo sono tutte tratte dall'omonima mostra.
 
 
 

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