Fare l'orto: origine di una necessità (l'equivoco medievale?!).

In tutto il Mondo fioriscono da alcuni anni orti in cui famiglie, gruppi di persone o addirittura comunità coltivano verdura non solo per soddisfare le proprie esigenze, ma soprattutto per recuperare quel rapporto con la natura in cui la stagionalità è l'elemento chiave e che si è sempre più perduto. Oltre a ciò vi è l'esigenza impellente di conoscere il processo di produzione delle materie prime e, non da ultimo, garantire l'assenza di pesticidi e sostanze dannose per la salute.
Se pensassimo tuttavia all'origine degli orti ci accorgeremmo che essi in passato si allontanavano fortemente da queste tematiche (e non parlo solo del fattore pesticidi).
Durante il Medioevo e nelle epoche successive l'aspirazione di tutte le classi sociali era di avere derrate alimentari disponibili tutto l'anno; ciò era facilmente risolvibile per le classi elevate ma non si può dire la stessa cosa per i ceti poveri. Se quindi le disponibilità economiche erano un fattore essenziale per avere materie prime fresche anche fuori stagione (numerosi sono gli esempi in molti testi), i ceti meno abbienti vi sopperivano attraverso due modi distinti: le tecniche di conservazione e gli orti. Sono proprio questi ultimi che un grande sovrano come Carlo Magno consigliò ai propri sudditi per avere disponibilità, seppur minime, di derrate alimentari.
L'orto è anche la realtà che si avvicina di più all'ideale di produzione continua. Isidoro da Siviglia spiegò in un suo trattato che l'orto (ortus) deve il proprio nome al fatto che qualcosa cresca sempre (oriatur), in virtù di ciò è facilmente intuibile la sua importanza per la fragile sussistenza del mondo contadino.


Il Liber de Coquina, il più antico ricettario italiano prodotto a Napoli presso la corte angioina e destinato alle classi elevate, incomincia la sua trattazione dalle verdure, cosa molto strana se pensiamo che queste ultime erano poco ricercate presso i potenti durante il Medioevo.
Il caso riportato non è l'unico, altri testi dell'epoca aggiunsero all'elenco delle verdure proposte altre, con preparazioni tipicamente territoriali.
In altri articoli è già stato affrontato il tema di come nella cultura medievale (ma anche nelle successive), i cibi identifichino il ceto sociale: il fetore dell'aglio e delle cipolle erano assimilabili ai pellegrini e ai poveri e quindi insopportabili per un nobile.
Nonostante questa ideologia imperante l'orto e quindi i prodotti umili venivano utilizzati anche nelle cucine dei ceti elevati; l'aglio, per esempio, era fondamentale per gli arrosti. Il contrasto tra gli alimenti che venivano considerati umili dalle norme sociali e ciò che era la pratica necessitava di segni forti per essere risolto, due in particolare: il prodotto veniva "nobilitato" inserendolo in preparazioni destinate alle cucine elevate; l'aggiunta di spezie, secondo elemento di differenziazione. In linea di massima potremmo affermare che l'accostamento di prodotti umili ad altri pregiati (o considerati tali), era il discriminante fondamentale per delineare la destinazione sociale della preparazione.


Nel contesto gastronomico medievale europeo la cucina italiana si distingueva per la ricchezza d'impiego dei prodotti dell'orto (verdure, erbe, aromi,...); anche i ricettari postumi ripresero questa tradizione rielaborandola, tanto che in molti casi si trovano consigli sul consumo di erbe e verdura. Sotto questo aspetto particolarmente importante è l'opera di Giacomo Castelvetro (1614) "Brieve racconto di tutte le radici di tutte l'erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano". Il libro è una rassegna dell'Italia gastronomica vista da uno dei suoi punti fondamentali: il consumo di verdura ed erbe.
Tuttavia va tenuto sempre presente che dietro a tutti gli elogi, gli scritti e le esaltazioni letterarie, vi erano motivazioni pratiche e di sopravvivenza che rendevano necessari gli orti; ragioni di povertà, clima e disponibilità si trasformarono in consuetudini, tecniche di coltura ed economiche.
A tutto ciò nel Cinquecento nacquero e si diffusero i risultati degli innesti praticati da vari orticultori (in particolar modo italiani); un esempio ci viene fornito dal carciofo, derivato dal cardo selvatico.
Si può affermare che i libri che parlavano di queste tematiche del Cinquecento fossero divisi in: ortaggi impiegati e le erbe, i nuovi risultati di innesti (come è stato visto per il carciofo), prodotti poco considerati e riservati a minoranze sociali (ad esempio il consumo di melanzane da parte delle comunità ebraiche) e i prodotti americani. Bisogna infine considerare che nel processo di inserimento di nuovi prodotti vi sia anche una fase in cui questi devono essere accettati e riconosciuti, di fondamentale importanza per l'integrazione del prodotto non solo nel panorama di consumo ma anche e soprattutto nella cultura.
Oggi gli orti sono diventati per lo più una necessità culturale e un mezzo per cercare di tornare ad un'agricoltura più consapevole e responsabile, senza abusi o forzature, diversa dalla loro funzione originaria.

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