Il vino nella storia, parte IV: il Medioevo.
Il Medioevo è stato un periodo di svolta per il mondo del vino, per certi aspetti difficile e critico. La caduta dell'Impero romano d'Occidente ma anche le invasioni barbariche, la crescita del potere delle comunità cristiane e non da meno, il crescente disordine sociale, determinarono una grave crisi agricola. Ciò provocò una sensibile riduzione della viticoltura italiana; in aggiunta a tutti i fattori precedentemente elencati tasse, epidemie ed eventi climatici provocarono in molte zone l'abbandono della campagna. Molti dei territori conquistati dalle tribù barbare finirono per diventare pascoli mentre, nelle zone di dominazione araba, si produceva (per motivi religiosi) solo zibibbo.
La viticoltura riuscì a resistere grazie all'opera dei monaci benedettini e cluniacensi che praticavano la viticoltura per soddisfare i bisogni di vino per l'uso liturgico.
Questa esigenza pratica fu il punto di partenza per l'opera di bonifica dei terreni incolti o che erano ritornati tali a seguito della crisi sociale e delle dominazioni barbare.
Fu attraverso la regola monastica benedettina che il vino trovò una vera e propria via di diffusione, questo perché la regola ne consentiva il consumo al di fuori dell'ambito liturgico; in molti conventi e ordini monastici infatti il rifiuto del vino era assimilato a quello della carne (ovviamente mi riferisco ai primi secoli).
L'espansione del monachesimo tra l' VIII e il IX secolo consentì alla viticoltura di risollevarsi, di salvare territori a vocazione vinicola che erano stati praticamente abbandonati ma, cosa più importante, migliorare le tecniche romane di coltivazione e trasformazione dell'uva. Tutto questo discorso non è valido solo per il territorio italiano ma anche per gran parte dell'Europa; registri dell'abbazia Saint- Germain- des- Prés (Parigi) e in particolare il rotolo dell'abate Irmione (814 d.C.) ci forniscono dettagliate informazioni dell'estensione dei vigneti e delle pratiche vitivinicole.
Lasciando l'ambito religioso e le importanti conseguenze dell'opera dei monaci, dal punto di vista istituzionale furono due i primi atti che si riferirono alla viticoltura (o al cui interno vi erano norme specifiche per questa pratica) : l'Editto di Rotari del 643 d.C. e il Capitulare de villis et Curtis del 789 d.C. . Nel primo erano presenti documenti che proteggevano la vite e ne sancivano l'importanza; il secondo, opera di Carlo Magno, era una raccolta di regole agricole ma anche di tecniche per la viticoltura. In questo ultimo atto il famoso sovrano disciplinò molto la pigiatura dell'uva e la conservazione del vino, egli infatti sosteneva che la pratica di pestare l'uva con i piedi non era igienica e i metodi di conservazione praticati dovevano essere migliorati per garantire una maggiore e migliore durata del prodotto.
Attorno all'anno Mille le zone a vocazione vitivinicola si ampliarono notevolmente sia a Est che a Ovest. Il fenomeno di diffusione dei nostri protagonisti anche in territori lontani dall'area mediterranea è confermato dal codice legislativo di Alfredo il Grande (Wantage 849 d.C. - 26 ottobre 899 d.C.), relativo alla vite in Inghilterra nel IX secolo.
Anche in oriente essa si era diffusa dalla Persia all'India nord-occidentale; tuttavia bisogna riconoscere che, nonostante questi casi, rimaneva ancora anche dopo l'anno Mille un fenomeno quasi esclusivamente europeo e mediterraneo.
In Nord Europa il vino era simbolo di ricchezza e quindi veniva consumato esclusivamente da nobiltà e clero. Per quanto riguarda il territorio italiano esso era diffuso e consumato da tutti i ceti, ovviamente con modalità diverse. Per le classi meno abbienti e per le taverne vi era un vino leggero che era il risultato dell'annacquamento del mosto e della sua correzione con miele e aromi; vi erano poi altre due categorie di vino, migliori della prima, destinate a nobili e clero.
Ciò che frenò inizialmente una più ampia diffusione del vino furono i costi elevati di trasporto: molti vigneti sorgevano nelle vicinanze di fiumi perché i trasporti fluviali erano meno costosi di quelli via terra.
Ben presto la sempre più crescente richiesta di vino da parte dell'Europa settentrionale incoraggiò molti piccoli agricoltori e contadini a dedicarsi alla viticoltura. Non sono pochi i testi letterari che documentano l'interesse sempre più crescente dimostrato dalle società nei confronti del nostro protagonista; la letteratura testimonia tutto ciò, un esempio ci viene fornito dai Racconti di Canterbury di Chaucer.
Come è già stato accennato vi erano diverse tipologie di vino ma anche diverse qualità; nel XIII secolo Henri d'Andeli dà prova di ciò in una sua poesia intitolata "La bataille des vins", scritta nel 1224. L'autore racconta che il re di Francia si fece mandare più di 70 campioni di vino da ogni parte del Mondo per poterli assaggiare. Nello stesso periodo il commercio tra Italia e nord Europa si intensificò: il nostro Paese esportava vino e importava prodotti tessili dalle Fiandre.
Il commercio dell'oro rosso era legato a tre tipologie di botti: botte d'anfora, tipica di Venezia che poteva contenere circa 600 l; botte di mena, tipica di Napoli, che conteneva circa 425 l; ed infine botte di mezzo migliaio, della Puglia, che conteneva circa 300 l. Venezia era anche un esportatore di bottame per zone in cui il legno scarseggiava; Napoli invece era il principale centro di raccolta e diffusione dei vini latini e greci.
Il commercio del vino era suddiviso in due grandi categorie: all'ingrosso e locale. Per il primo caso esistevano già allora contenitori standard, che venivano utilizzati non solo per il commercio del vino ma anche per molti altri alimenti; per il secondo invece i contenitori standard non esistevano ma vi erano soluzioni più semplici e sbrigative, tipiche del mondo rurale. In Italia i tre contenitori più conosciuti utilizzati per il trasporto in campagna dell'uva e del mosto erano: brenta e mastello nell'area della Pianura Padana e bigoncio in Toscana; probabilmente queste tre tipologie non appartenevano alla categoria "standard" che è stata analizzata in precedenza.
La conservazione del vino fu per molti secoli (Medioevo compreso) un problema molto sentito dato che i metodi di conservazione conosciuti erano poco efficaci e le condizioni igienico-ambientali e climatiche non erano da meno. In virtù di ciò, i vini troppo giovani provocavano dolori a livello intestinale, quelli che avevano più di un anno erano già andati a male. La svolta nel cercare di sopperire a tutto ciò venne nel 1487: in quell'anno infatti in Germania venne emanato un decreto reale che permise per la prima volta di aggiungere zolfo al vino. Questa pratica in realtà era molto antica perché era già stata documentata molto tempo prima da Omero e Plinio ma durante il Medioevo il suo ricordo era caduto nell'oblio. Dai pochi documenti pervenuti del periodo sembra che lo zolfo impregnasse dei trucioli con altre sostanze, essi venivano poi bruciati nella botte vuota per sterilizzarla prima di essere riempita di vino. Da allora l'anidride solforosa viene utilizzata per i vini tedeschi con lo scopo di rallentare il processo di maturazione; i francesi ne permisero l'uso solo molti secoli dopo.
Con il Cinquecento si verificarono importanti cambiamenti dal punto di vista economico e sociale che ebbero ripercussioni anche sulla produzione vinicola. Questo però verrà affrontato nell'articolo successivo.
La viticoltura riuscì a resistere grazie all'opera dei monaci benedettini e cluniacensi che praticavano la viticoltura per soddisfare i bisogni di vino per l'uso liturgico.
Questa esigenza pratica fu il punto di partenza per l'opera di bonifica dei terreni incolti o che erano ritornati tali a seguito della crisi sociale e delle dominazioni barbare.
Fu attraverso la regola monastica benedettina che il vino trovò una vera e propria via di diffusione, questo perché la regola ne consentiva il consumo al di fuori dell'ambito liturgico; in molti conventi e ordini monastici infatti il rifiuto del vino era assimilato a quello della carne (ovviamente mi riferisco ai primi secoli).
L'espansione del monachesimo tra l' VIII e il IX secolo consentì alla viticoltura di risollevarsi, di salvare territori a vocazione vinicola che erano stati praticamente abbandonati ma, cosa più importante, migliorare le tecniche romane di coltivazione e trasformazione dell'uva. Tutto questo discorso non è valido solo per il territorio italiano ma anche per gran parte dell'Europa; registri dell'abbazia Saint- Germain- des- Prés (Parigi) e in particolare il rotolo dell'abate Irmione (814 d.C.) ci forniscono dettagliate informazioni dell'estensione dei vigneti e delle pratiche vitivinicole.
Lasciando l'ambito religioso e le importanti conseguenze dell'opera dei monaci, dal punto di vista istituzionale furono due i primi atti che si riferirono alla viticoltura (o al cui interno vi erano norme specifiche per questa pratica) : l'Editto di Rotari del 643 d.C. e il Capitulare de villis et Curtis del 789 d.C. . Nel primo erano presenti documenti che proteggevano la vite e ne sancivano l'importanza; il secondo, opera di Carlo Magno, era una raccolta di regole agricole ma anche di tecniche per la viticoltura. In questo ultimo atto il famoso sovrano disciplinò molto la pigiatura dell'uva e la conservazione del vino, egli infatti sosteneva che la pratica di pestare l'uva con i piedi non era igienica e i metodi di conservazione praticati dovevano essere migliorati per garantire una maggiore e migliore durata del prodotto.
Attorno all'anno Mille le zone a vocazione vitivinicola si ampliarono notevolmente sia a Est che a Ovest. Il fenomeno di diffusione dei nostri protagonisti anche in territori lontani dall'area mediterranea è confermato dal codice legislativo di Alfredo il Grande (Wantage 849 d.C. - 26 ottobre 899 d.C.), relativo alla vite in Inghilterra nel IX secolo.
Anche in oriente essa si era diffusa dalla Persia all'India nord-occidentale; tuttavia bisogna riconoscere che, nonostante questi casi, rimaneva ancora anche dopo l'anno Mille un fenomeno quasi esclusivamente europeo e mediterraneo.
In Nord Europa il vino era simbolo di ricchezza e quindi veniva consumato esclusivamente da nobiltà e clero. Per quanto riguarda il territorio italiano esso era diffuso e consumato da tutti i ceti, ovviamente con modalità diverse. Per le classi meno abbienti e per le taverne vi era un vino leggero che era il risultato dell'annacquamento del mosto e della sua correzione con miele e aromi; vi erano poi altre due categorie di vino, migliori della prima, destinate a nobili e clero.
Ciò che frenò inizialmente una più ampia diffusione del vino furono i costi elevati di trasporto: molti vigneti sorgevano nelle vicinanze di fiumi perché i trasporti fluviali erano meno costosi di quelli via terra.
Ben presto la sempre più crescente richiesta di vino da parte dell'Europa settentrionale incoraggiò molti piccoli agricoltori e contadini a dedicarsi alla viticoltura. Non sono pochi i testi letterari che documentano l'interesse sempre più crescente dimostrato dalle società nei confronti del nostro protagonista; la letteratura testimonia tutto ciò, un esempio ci viene fornito dai Racconti di Canterbury di Chaucer.
Come è già stato accennato vi erano diverse tipologie di vino ma anche diverse qualità; nel XIII secolo Henri d'Andeli dà prova di ciò in una sua poesia intitolata "La bataille des vins", scritta nel 1224. L'autore racconta che il re di Francia si fece mandare più di 70 campioni di vino da ogni parte del Mondo per poterli assaggiare. Nello stesso periodo il commercio tra Italia e nord Europa si intensificò: il nostro Paese esportava vino e importava prodotti tessili dalle Fiandre.
Il commercio dell'oro rosso era legato a tre tipologie di botti: botte d'anfora, tipica di Venezia che poteva contenere circa 600 l; botte di mena, tipica di Napoli, che conteneva circa 425 l; ed infine botte di mezzo migliaio, della Puglia, che conteneva circa 300 l. Venezia era anche un esportatore di bottame per zone in cui il legno scarseggiava; Napoli invece era il principale centro di raccolta e diffusione dei vini latini e greci.
Il commercio del vino era suddiviso in due grandi categorie: all'ingrosso e locale. Per il primo caso esistevano già allora contenitori standard, che venivano utilizzati non solo per il commercio del vino ma anche per molti altri alimenti; per il secondo invece i contenitori standard non esistevano ma vi erano soluzioni più semplici e sbrigative, tipiche del mondo rurale. In Italia i tre contenitori più conosciuti utilizzati per il trasporto in campagna dell'uva e del mosto erano: brenta e mastello nell'area della Pianura Padana e bigoncio in Toscana; probabilmente queste tre tipologie non appartenevano alla categoria "standard" che è stata analizzata in precedenza.
La conservazione del vino fu per molti secoli (Medioevo compreso) un problema molto sentito dato che i metodi di conservazione conosciuti erano poco efficaci e le condizioni igienico-ambientali e climatiche non erano da meno. In virtù di ciò, i vini troppo giovani provocavano dolori a livello intestinale, quelli che avevano più di un anno erano già andati a male. La svolta nel cercare di sopperire a tutto ciò venne nel 1487: in quell'anno infatti in Germania venne emanato un decreto reale che permise per la prima volta di aggiungere zolfo al vino. Questa pratica in realtà era molto antica perché era già stata documentata molto tempo prima da Omero e Plinio ma durante il Medioevo il suo ricordo era caduto nell'oblio. Dai pochi documenti pervenuti del periodo sembra che lo zolfo impregnasse dei trucioli con altre sostanze, essi venivano poi bruciati nella botte vuota per sterilizzarla prima di essere riempita di vino. Da allora l'anidride solforosa viene utilizzata per i vini tedeschi con lo scopo di rallentare il processo di maturazione; i francesi ne permisero l'uso solo molti secoli dopo.
Con il Cinquecento si verificarono importanti cambiamenti dal punto di vista economico e sociale che ebbero ripercussioni anche sulla produzione vinicola. Questo però verrà affrontato nell'articolo successivo.
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