Non voglio dimenticare: il ricordo passa anche dalla conoscenza gastronomica.

Il 27 gennaio si celebra la commemorazione delle vittime dell' Olocausto.
Ho deciso di scrivere questo post perchè credo fermamente che il ricordo possa ed anzi debba passare anche dalla gastronomia.
La presenza di comunità ebraiche fin dall'antichità, non solo sul territorio italiano ma anche europeo, ha avuto da sempre importanti ripercussioni non solo dal punto di vista cuturale ma, inevitabilmente, anche gastronomico. Per capire come ciò si sia realizzato e si realizza anche oggi è molto utile andare alle orgini: il rapporto tra la civiltà ebraica e i greci e latini. Possiamo parlare di scambi ma sopratutto di diversità culturale già in tempi così remoti. Il punto centrale che caratterizza la cultura ebraica è il rapporto di Dio con il suo popolo; questo legame stretto e sostanzialmente indivisibile destò sempre scandalo nei popoli mediterranei il cui modo di vivere con il lato divino era assai diverso dai primi.
Il rapporto non si limita solo al breve lasso di tempo durante i sacifici rituali ma investe tutti gli ambiti della vita umana. La diversificazione non finisce qui, l'osservanza dei precetti rende stabile e molto più concreto il rapporto con Dio ma genera, al tempo stesso, difficoltà da parte degli autori classici nel capire questa novità così diversa e lontana dalle loro usanze.
Il segno più visibile di come questa disuguaglianza si concretizzi si manifesta in ambito alimentare. I  precetti che regolano la trasformazione e il consumo degli alimenti da parte degli ebrei non vengono totalmente compresi dai popoli antichi. Un esempio ci viene dal brano proposto qua sotto tratto da Tacito (Storie, V, 4, 1-2).

"Affinchè il popolo restasse unito anche in futuro, Mosè introdusse nuove costumanze, opposte a quelle degli altri uomini. Tutte le cose che per noi sono sacre, li sono profane, al contrario presso di loro è ammesso quello che per noi è abominevole ... Si astengono dalla carne di maiale in memoria di un flagello, la scabbia che un tempo li aveva deturpati, alla quale questo animale è soggetto. Con i frequenti digiuni riconoscono la fame sofferta a lungo in passato e, in ricordo di messi raccolte in tutta fretta, il pane giudaico non contiene lievito".

Per capire le differenze di visione nel mondo alimentare tra queste culture così dissonanti fra loro occorre chiarire fin da subito il rapporto del popolo ebraico con il cibo. E' proprio questo il campo in cui si gioca l'oratoria tra uomo e Dio; la riconciliazione dalla ferita provocata dal peccato originale passa attraverso alcune tappe alimentari che permettono di ristabilire l'antico rapporto. Questa diversificazione si concretizza nella conoscenza di procedure di trasformazione della carne sconosciute agli eroi omerici, eppure se ci pensiamo bene, il testo ebraico è molto più antico di quello greco. La chiave che, a mio parere, permette di aprire la porta che separa questi due mondi risiede nella grande distanza estetica che separa la cena della Pasqua nella Bibbia dalla "cena nella tenda" nell'Iliade; in questo contesto il povero e frugale rituale alimentare è il mezzo attraverso il quale Israele accede alla sua salvezza Grazie a ciò la cucina diventa per la prima volta un luogo in cui si prega.

(Paqua ebraica, olio su tela, Dirk Bouts,
1415-1475)

Il rapporto tra l'Italia e la cultura ebraica è molto antico basti pensare che la comunità ebraica di Roma è la più antica in Europa. Già Cicerone, infatti, ricorda le somme di oro che venivano inviate in Palestina per il contributo al Tempio. Assieme a quella romana altre comunità ebraiche numerose erano quelle di Venosa e Siracusa (dove ancora oggi si trovano le catacombe ebraiche).    
Questo articolo non tratta delle peregrinazioni fatte dal popolo ebraico nel corso della storia ma vuole essere un punto di riflessione su come il multiculturalismo non porti alla perdita dell'identità di un territorio e di chi vi abita ma, al contrario, ad un profondo arricchimento; questo è il caso delle comunità ebraiche sparse sul territorio italiano.
I continui spostamenti di questo popolo, influendo sulla cultura di un territorio, hanno da sempre toccato anche la gastronomia di molti paesi europei: i flussi gastronomici, come spesso accade per ogni ambito della cultura, non sono mai stati a senso unico ma nei sensi delle realtà coinvolte.
Il popolo ebraico che da secoli si è stabilito nella fascia europea può essere suddiviso in due: Ashkenaziti e Sefarditi. Per i primi (da Ger. 51, 27) il nome indicherebbe, secondo un'interpretazione medievale, la Germania; fanno parte di questo gruppo tutti gli ebrei dell'Europa centrale e orientale. I secondi devono il loro nome al profeta Abdia che nel versetto 20 profetava di Sephard, creduta nel Medioevo la Spagna; appartengono a questo gruppo gli ebrei che vivono in Portogallo, Spagna e Francia meridionale.
La differenza geografica tra questi due grandi blocchi si riflette, inevitabilmente, anche in cucina.
Il gruppo settentrionale (Ashkenaziti) presenta meno ricchezza, fantasia e varietà; di norma privilegia il brodo, il pesce ripieno, l'aringa di fine digiuno, le patate e la composta di frutta.
Il gruppo meridionale (Sefarditi) ama stufati e cotture sostanziose ad esempio tzimmes, stufato di carne e prugne, pesce dolce all'italiana, insalata di carne al cumino e purea di melanzane.
L'importanza che tutti e due hanno avuto nel corso dei secoli è riassumibile in due aspetti fondamentali: culturale e alimentare. 
Le prescrizioni alimentari hanno una valenza culturale. Esse caratterizzano il popolo d'Israele, salvaguardando questa specificità ma anche quella religiosa del popolo di Dio e sono divenute nel corso degli anni strumento importante per non perdere la coscenza nazionale.
Non da meno, la dispersione degli ebrei ha facilitato senz'altro la diffusione di determinati alimenti.
I due fattori sopra esposti sono stretti da un forte legame. Potremmo dire che le peculiarità culturali tipiche di questo popolo hanno influito molto (come già si è visto) le culture presenti nei vari territori. Questo ultimo aspetto è di vitale importanza: gli scambi culturali verificatisi nell'uno e nell'altro senso hanno avuto forti influenze sulle cucine regionali.
Come accade però per le cucine di tutti i paesi e di tutti i popoli anche quella ebraica si differenzia in base ai ceti. Questa distinzione è documentata da Leone de' Sommi Portaleone (1527-1592) sceneggiatore alla corte dei Gonzaga, autore della prima commedia in lingua ebraica "Zachut bedichutah de-kiddushin (la commedia del matrimonio) nella quale descrive la colazione tipica della "Mantova ebraica".
Altro personaggio di spicco grazie al quale ci è pervenuta una vivida descrizione delle usanze gastronomiche ebraiche è Leon da Modena, uno dei più famosi rabbini veneziani (23 aprile 1571-21 marzo 1648), ridotto in povertà dal fallimento del padre, descrive una situazione sociale assai diversa da quella di Portaleone: piatti umili e poveri, appartenenti ai ceti sociali bassi. Nel testo troviamo gli esempi pratici di quanto affermato nel consumo di: minestra di grano, brodo di gallina ed erbe cotte. Questi piatti venivano consumati anche dai bassi ceti italiani; infatti il grande consumo di legumi, fagioli, ceci, fave o lenti era tipico delle famiglie ebraiche più povere ma anche di quelle italiane. I ceti elevati, invece, si limitavano a consumare questi alimenti nei giorni di magro.

(quadro raffigurante cena di famiglia ebraica d'alto rango)

E' stato affrontato più volte in questo articolo il tema degli scambi culturali tra i vari popoli ed è stato anche affermato di come questi avvengano anche in ambito culinario. Uno degli esempi più significativi sono le innumerevoli varietà di dolci sparse sul territorio italiano che sono frutto di un notevole e fiorente multiculturalismo. Anche la cucina italiana però ha inevitabilmente influenzato quella ebraica. La tradizione delle paste al forno, tipica del territorio italiano, ha determinato la creazione del frinzinsal, piatto tipico delle comunità ebraiche del nord Italia diffuso, durante il Rinascimento, in Piemonte, Emilia, Veneto e Mantova. Si trattava di una torta di maccheroni formata da tre strati di lasagne o tagliatelle bollite nel brodo di cappone con ripieno di foie gras, pezzetti di salame e prosciutto d'oca, uva passa e pinoli; cotti al forno con grasso d'oca e spolverati di zucchero e cannella.
Vi sono poi molti alimenti la cui diffusione nella cucina italiana si è avuta per merito della cultura ebraica, ne cito solo due: il carciofo e la melanzana.
Concludo ribadendo le ragioni di questo mio articolo in cui ho voluto trattare in modo breve e conciso alcune delle importanti influenze che le comunità ebraiche hanno avuto sul territorio europeo ma, in particolar modo, italiano.
La diversità non è sinonimo di inferiorità e non assume un'accezione negativa; al contrario, produce arricchimento personale e sociale, stimola la cultura e tutte le sfumature del sapere: cosa sarebbe del popolo italiano senza la ricchezza culturale apportata, nei secoli, dalle comunità ebraiche?.
Il titolo che ho scelto, infine, è una forte provocazione culturale. Credo che, per far continuare a vivere il ricordo delle atrocità compiute non basti affermare "non dobbiamo dimenticare" ma sarebbe più corretto dire "non voglio dimenticare"; questa ultima espressione, a mio parere, denota una partecipazione attiva del soggetto, un forte coinvolgimento personale estremamente necessario affinchè il ricordo non si affievolisca nelle generazioni future e perchè nessuno mai osi affermare o anche solo pensare che tutto il male compiuto è stato frutto dell'immaginazione umana, riflettiamo!.                

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